Su come possiamo orientarci
- Fabrizio
- 11 mar 2022
- Tempo di lettura: 5 min
Di Fabrizio Mele

Qualche anno fa, prima che guerra e pandemia ci riportassero a un disincanto forzato intorno alla nostra condizione di occidentali nella fortezza dorata, fui invitato a tenere una conferenza per un evento dal titolo “I cicli della vita”. Il titolo di questa manifestazione mi piacque da subito perché, è ancora così, evoca e custodisce un pensiero centrale nella filosofia: il pensiero dell’Essere e del Divenire. Due parole care alla filosofia e di cui essa si prende cura sin dalle sue origini.
I cicli della vita dunque. La vita è qui intesa come ciò che permane, i suoi cicli come ciò che diviene. La vita si manifesta nel suo modo di cambiare, un trasformarsi scandito dalle fasi che la caratterizzano. Cambiare è dunque il modo di essere della vita in generale e di quella umana in particolare. Il cambiamento per esempio ci muove, ci fa sperare, gioire, ammalare, ci spaventa. Già questo, il fatto cioè che il cambiamento sia costitutivo dell’esistenza e insieme sia una potenza destabilizzante di cui a volte è saggio aver timore, è fonte di stupore per la filosofia: come mai ciò che così ci costituisce anche ci spaventa? Certo temiamo il più grande dei mutamenti, quello che investe la vita e la morte. E questa fine non potrebbe accadere all’intero mondo e persino all’intero universo? Come approcciare questo pensiero abissale?
Cominciamo da noi stessi e dalla nostra psiche. Esiste una prospettiva terapeutica, teorica e clinica, che prende il nome di Psicopatologia del ciclo di vita. G.P. Charmet, tra i pionieri di questo approccio, scrive che “ogni fase della vita è caratterizzata da compiti di sviluppo che chiedono di essere interpretati e portati a compimento”. Possono qui nascere difficoltà che il soggetto incontra nell’adattarsi alle esigenze della nuova fase. Il cambiamento di fase all’interno del ciclo di vita investe, corpo, mente e ambiente/contesto. I disturbi che possono derivare da una non adeguata risposta alle sfide di ogni fase portano a “difficoltà soggettiva a risolvere in modo soddisfacente i compiti evolutivi specifici della fase di vita che si sta attraversando”. Quando questo succede alcune abitudini si manifestano come disturbi, ovvero “l’espressione di una soluzione temporanea e inadeguata ai compiti di sviluppo”. Charmet individua qui un modo non più statico di pensare l’individuo e i suoi comportamenti. Il contesto culturale in cui vive una persona rende la risposta comportamentale non solo una malattia ma anche un prodotto culturale che crea un’identità. Vi è qui un “sapere inconscio trasmesso geneticamente al soggetto” che ci interroga e ci invita a “capire il contributo specifico delle preconoscenze nella organizzazione del pensiero e della conoscenza”. Un chiaro esempio che chiarifica questi difficili passaggi lo troviamo in A. Maggiolini, anche lui psicoterapeuta: “[…] i problemi mentali sono strettamente legati alla storia di una persona. Un disturbo del comportamento alimentare non è solo un evento che capita, come una frattura o un infarto, ma dice molto della vita di una persona, non solo della sua identità presente, ma anche del suo passato e della sua storia familiare, spesso anche transgenerazionale”.
Cerchiamo di capire e di mettere a fuoco alcune idee.
Quando parliamo di cambiamenti stiamo in effetti parlando di variazioni su un tema. Se qualcosa cambia si immagina sempre un sottofondo, uno sfondo: la psiche, la vita, le quinte del tempo, un dio, la natura. Le cose cambiano si dice, e a ragione (ma quali cose permangono?). Di questi mutamenti cerchiamo le cause, le influenze, saggiamo la loro bontà e verità. Dei cambiamenti cerchiamo l’origine come qualcosa di perduto, di lontano, di dimenticato. Il cambiamento ci può anche far concentrare su ciò che è rimasto immutato, silenzioso o muto. Dunque, un divenire di qualcosa di cui possiamo registrare i movimenti e infine tentare di guidare.
Ma - dicevamo - perché qualcosa si possa dire mutato è necessario che qualcosa permanga nel cambiamento. Come potremmo se no averne la percezione? Da quale punto di vista potremmo parlare di cambiamento? L’origine dei cambiamenti è per definizione qualcosa di perduto o disperso. Per esempio: da quale punto di vista diciamo di essere in continuità con la nostra infanzia, la fanciullezza, l’adolescenza? Potremmo dire che la continuità è dovuta al nostro corpo…il quale però si trasforma costantemente in ogni sua fibra, percepisce in maniera sempre diversa se stesso e il mondo, ha mire e strategie sempre differenti. Saranno allora la memoria e i ricordi il nostro sfondo? Uno sfondo molto confuso, sbiadito offuscato e plurale se della stessa dinamica anche solo due persone hanno idee e percezioni differenti o addirittura ereditate. Il mondo stesso non sembra essere un punto fermo, lo sappiamo quando il buon senso popolare dice: “Una volta era diverso…”. Il pianeta è in perpetuo mutamento e si parla nei nostri giorni di cambiamento climatico.
Certo il contesto, la storia, l’epoca in cui si vive determina la psiche di chi lo abita, potremmo cercare qui un punto fermo. Per esempio, il Prof. Meyrowitz, esperto di mass media, scrive che “I ruoli complementari dipendono sempre dall’accesso limitato alle situazioni da retroscena e alle informazioni in esse disponibili”; Ve lo diremo quando sarete più grandi si dice ai bambini, verrete esclusi dal gruppo degli adulti solo per un po’. E dopo che succede? Che accederete alle nostre informazioni, narrazioni, parole. La parola allora è il nostro supporto, il nostro nucleo più intimo? Certo nei segni del linguaggio troviamo una stabilità senza pari (basti dire che di questo è fatto il nostro stesso nome), ancor più se essi vengono messi per iscritto. Tuttavia, non sembra esservi nulla di nostro nella lingua che parliamo e nelle parole che usiamo. Col linguaggio ci troviamo al confine più estremo tra stabilità e instabilità, proprietà e soggezione, ancor più con la scrittura. La tecnologia che esprime le parole d’uso infatti passa anche da qui: verba volant, scripta manent. Quando l’analfabetismo era la regola, chi sapeva leggere aveva accesso a informazioni, mondi e livelli sociali diversi da chi non leggeva. Che succede con i nuovi media? I linguaggi sembrano dispersi tanto che, nel caso del rapporto tra adulti e bambini si assottiglia la differenza tra le parole usate dagli uni e dagli altri così come la differenza dei comportamenti. Anche da qui si registrano certi cambiamenti. Cambiamenti del linguaggio dunque. Questo estremo, fertile e coraggioso tentativo di fotografare i cambiamenti e tracciare una stabilità possibile attraverso la parola (o il gesto significativo) è quanto di più solido siamo riusciti a scoprire per poter imparare ad orientarci. Ma le parole come le stelle hanno solo un’apparenza di stabilità, sono fisse solo per l’occhio che non le interroga; esse si muovono e dunque mutano come tutto.
Se qualcosa cambia, si trasforma, si allontana, si perde e perisce, come può essere un punto fermo per noi? Ecco che la filosofia batte un luogo di sorvolo, una nuova paradossale stabilità: l’indeterminato (apeiron). Esso è ciò che sta al di sotto dei cambiamenti e che solo più tardi potrà prendere anche il nome di essere, natura o Dio. Lo descrive bene Nietzsche quando, a commento di pensieri e luoghi simili a quelli che anche noi qui stiamo frequentando, indica nel pensiero filosofico uno stile di cammino. Così il viandante che miri al sapere dovrà utilizzare i propri pensieri come pietre utili ad attraversare il fiume, pietre che però sprofonderanno subito dopo il suo passaggio. Così le cose mutano e periscono ma chiaro rimane il fine: “D’ora in poi il vostro onore consista non nella vostra origine, bensì nella vostra meta”. Così i compiti del ciclo di vita dimostrano la loro importanza; ma come affrontarli, come affrontare parole e abitudini che vengono prima di noi, che ci costituiscono come soggetti alle pratiche e soggetti delle pratiche? Scrive Maggiolini “il rapporto con il passato resta importante, ma queste esperienze contano in quanto determinano l’idea dei modi giusti o sbagliati di agire in futuro”.
Nietzsche ha parlato di tre metamorfosi per l’uomo: prima cammello capace di farsi carico di doveri, angosce e dolori, poi leone capace di imporre la propria volontà alle cose; infine bambino capace di agire libero da colpe e dunque innocente.
Questo spero per te: che tu viva innocente e diventi te stesso.
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